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mercoledì 23 marzo 2011

Eneide - Canto 4, versi CCCLXII-CCCXCVI

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L'invettiva di Didone
"Torva, furiosa si rivolge a colui che dice queste cose (Enea), (Didone) girando gli occhi di qua e di la, squadrandolo, così lo aggredisce: << oh perfido, non ti generò la dea madre (Venere) né ti fu progenitore Dardano ma ti generò l'orrendo Caucaso irto di rocce e le tigri dell'Ircania ti volsero il seno; infatti perché dissimulo il mio sdegno, forse lui si è dispiaciuto per il mio pianto? forse abbassò gli occhi? Forse lui che è vinto pianse per la sua amante? Quali offese dovrei ritenere più grandi di quelle che ho subito? Né il padre Saturnio (Giove) ne Giunone si curano di queste cose con giustizia. La fedeltà non è mai sicura. Io l'ho aiutato e io demente l'ho messo come mio compagno nel regno; io salvai i suoi compagni. Mi sento accesa dalle furie, ora il messo di Giove manda anche questi orridi comandi. Si vede che per gli dei questa è la loro preoccupazione (fondare Roma) e loro sono sollecitati da questo affanno. Non ti trattengo, segui i venti e attraverso le onde cerca il tuo regno. Spero comunque che se gli dei impietosi possono fare qualcosa spero che tu finisca tra gli scogli con le tue navi e nella tua morte sofferente invochi più volte il mio nome. Io pur lontana da te ti seguirò con le fiamme funeste e quando morirò andrò vagare in tutti i luoghi: la tua pena sarà conosciuta e la mia profezia arriverà agli dei. >> Detto ciò interrompe il discorso, si volge lasciando lui che si prepara a dire molte cose impaurito. Le sue servitrici la sorreggono e la mettono sul suo talamo. Ma il pio Enea per quanto desideri consolarla e toglierle la sua sofferenza con parole, lamentandosi di molte cose e con il suo animo sconvolto dal grande amore, esegue tuttavia l'ordine (di Mercurio) e va a controllare la flotta.


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